Non chiamateci quote rosa è il grido corale di 40 giornaliste che rivendicano spazio, merito e rispetto nel mondo dello sport

In un panorama mediatico ancora segnato da squilibri e stereotipi, Valentina Cristiani ha scelto di fare esattamente il contrario: dare spazio, nome e dignità a 40 giornaliste sportive che ogni giorno raccontano il calcio — maschile e femminile — con competenza, passione e autorevolezza.
Il suo libro, Non chiamateci quote rosa, è molto più di una raccolta di testimonianze: è un atto politico, culturale e umano. Un mosaico di voci che sfida le etichette, smonta pregiudizi e rivendica il merito come unico criterio di riconoscimento. Il calcio femminile, spesso relegato ai margini, trova qui una narrazione nuova, finalmente libera da paternalismi e retoriche.
Il tema delle pari opportunità attraversa il libro con forza: non solo sul campo, ma anche dietro le quinte, tra redazioni e studi televisivi, dove le giornaliste lottano ogni giorno per essere ascoltate, rispettate, riconosciute. E proprio su questo si è aperto il nostro dialogo.
Tra i suoi numerosi impegni, sono riuscita a raggiungere telefonicamente Valentina Cristiani, che ha risposto con generosità e lucidità alle mie domande. Ci ha raccontato la scintilla che ha acceso il progetto, le emozioni vissute nel raccogliere le storie, e il ruolo che scuole, università e istituzioni possono giocare nel cambiare la narrazione.
Una conversazione che è insieme riflessione e invito all’azione. Perché cambiare il racconto significa cambiare la realtà.
Buonasera Valentina, e grazie per averci dedicato del tempo nonostante i suoi numerosi impegni. Vorrei iniziare dal titolo del suo libro, Non chiamateci quote rosa. Una scelta forte, che colpisce subito. Come mai ha deciso di intitolarlo così? Qual è il messaggio che desidera trasmettere immediatamente al lettore?
“Ho scelto il titolo “Non chiamateci quote rosa” proprio per la sua forza e immediatezza. Il messaggio che volevo trasmettere è che le donne che lavorano in ambito sportivo non vogliono essere percepite come un riempitivo, una “quota” imposta per legge, ma desiderano essere riconosciute per la loro competenza, il loro talento e il loro impegno, esattamente come i colleghi uomini. Il titolo è un manifesto che rivendica il merito e la professionalità al di là del genere”.
Lei prende chiaramente le distanze dal concetto di “quote rosa”, un termine che nel tempo ha assunto connotazioni controverse. In che modo questa espressione può risultare dannosa per le donne che vogliono essere riconosciute per il loro merito?
“L’espressione “quote rosa” può essere profondamente dannosa perché insinua il dubbio che una donna abbia raggiunto una certa posizione non grazie alle sue capacità, ma per un favoritismo legato al suo sesso. Questo toglie valore al suo lavoro e al suo percorso, creando un’ombra di pregiudizio che mina la sua credibilità e la costringe a lavorare il doppio per dimostrare di meritare quel posto. Invece di promuovere l’uguaglianza, rischia di alimentare un senso di iniquità sia tra le donne che tra gli uomini”.
Il suo libro raccoglie le testimonianze di ben 40 giornaliste, molte delle quali provenienti dal mondo dello sport. Quando ha sentito l’urgenza di scrivere quest’opera e di dare voce a queste professioniste? C’è stato un momento preciso, un episodio, che ha fatto scattare in lei la necessità di raccontare tutto questo?
“L’urgenza di scrivere quest’opera è maturata nel tempo, ma c’è stato un momento preciso che ha fatto scattare la scintilla. È stato un lampo di intuizione. Quando ho capito che dovevo raccogliere queste voci per tesserle in un racconto che fosse al tempo stesso collettivo e potente? Durante un evento, ho sentito una collega parlare del suo lavoro e degli ostacoli che aveva superato. Mi sono resa conto che le sue esperienze non erano isolate, ma facevano parte di un quadro più ampio e condiviso da molte altre professioniste che avevo intervistato. Ho sentito la necessità di dare voce a queste storie per far capire al grande pubblico cosa significa essere una giornalista che segue lo sport in Italia e per far sentire meno sole le ragazze che stanno iniziando questo percorso”.
Tra le tante testimonianze raccolte nel suo libro, ce ne sono alcune che l’hanno colpita in modo particolare, anche sul piano personale? C’è una storia, un racconto, che l’ha emozionata o che ha lasciato un segno più profondo nel suo percorso?
“Sono tante le storie che mi hanno colpito, specialmente quelle di giornaliste che hanno perso il lavoro per aver rifiutato delle avances dai loro superiori. Questi racconti mettono in luce una dinamica di potere distorta e una scelta ingiusta a cui molte donne sono costrette: l’integrità contro la carriera. Un’altra testimonianza che mi ha colpito è quella di inviate che, oltre a preparare i servizi e ad andare in onda, si occupavano anche del montaggio. Nonostante l’evidenza, spesso non venivano credute, come se il lavoro tecnico fosse al di fuori delle loro competenze. Queste esperienze sottolineano un aspetto cruciale: il lavoro e l’impegno delle giornaliste non vengono sempre riconosciuti o valorizzati come dovrebbero, a causa di preconcetti e stereotipi.
Inoltre il mondo del video ha le sue regole, e purtroppo non sempre premia la sola competenza. Ho incontrato giornaliste straordinariamente preparate, con una profonda conoscenza dello sport, che non hanno avuto la possibilità di emergere in televisione perché non venivano considerate abbastanza “telegeniche”. Questo crea un paradosso frustrante: mentre i loro colleghi maschi possono contare sulla loro esperienza e autorevolezza per conquistare il pubblico, le donne devono anche “bucare lo schermo” con la loro immagine. Questa pressione aggiuntiva le costringe a dedicare energie non solo alla loro preparazione, ma anche al loro aspetto, a scapito del loro talento”
Nel corso della sua carriera giornalistica, c’è stato un episodio, un momento preciso, che l’ha spinta a dire: “Ora devo raccontare tutto questo”?
“Come accennato, la scintilla è stata l’incontro e la condivisione di storie con altre colleghe. Mi sono resa conto che la mia esperienza non era un caso isolato, ma era parte di un tessuto narrativo più ampio. La sensazione che avevamo tutte affrontato ostacoli simili, spesso in silenzio, mi ha fatto capire che era il momento di rompere quel silenzio. Ho pensato: “Queste storie devono essere raccontate. Devono essere ascoltate non solo dalle donne, ma da tutti”. La scintilla è stata la consapevolezza che era il momento di trasformare le nostre esperienze individuali in un messaggio collettivo di forza e resilienza”.
Qual è stata la scintilla che ha trasformato un pensiero in un progetto editoriale così ambizioso? Paola Ferrari, storica giornalista sportiva della Rai, ha aperto la strada a molte professioniste nel mondo del calcio, conducendo programmi iconici come Domenica Sportiva e 90° Minuto. Nell’introduzione del suo libro, racconta che trent’anni fa era impensabile vedere donne autorevoli parlare di calcio. Secondo lei, cosa è davvero cambiato da allora? E cosa, invece, continua a restare immobile, nonostante i progressi apparenti?
“Grazie a pioniere come Paola Ferrari e Rosanna Marani (è stata sì la prima donna a diventare giornalista professionista sportiva nel 1976 affermandosi nel giornalismo con La Gazzetta dello Sport, realizzando il 18 novembre 1973, un’intervista a Gianni Rivera che era in silenzio stampa da 6 mesi) molte cose sono cambiate. Trent’anni fa era impensabile vedere donne non solo in campo, ma anche a condurre programmi sportivi autorevoli.
Oggi, per fortuna, le donne nel giornalismo sportivo sono molto più presenti e riconosciute. Tuttavia, alcune dinamiche purtroppo restano immutate. Spesso si assiste ancora a una certa reticenza nel dare alle donne la stessa credibilità dei colleghi uomini quando si parla di tattica, tecnica o mercato. C’è ancora il pregiudizio che le donne possano parlare solo di gossip o di aspetti “leggeri” dello sport, e che non siano in grado di analizzare la partita in profondità. La strada per la piena parità di autorevolezza è ancora lunga”.
Molte giornaliste raccontano di aver dovuto affrontare, oltre alle sfide professionali, anche pressioni legate all’immagine e all’estetica. Secondo lei, quanto pesa ancora oggi questo tipo di condizionamento nel mondo dello sport? Nel suo percorso professionale, ha incontrato ostacoli provenienti sia da colleghi uomini che da colleghe donne.
“Nel mondo della televisione sportiva, si osserva una tendenza preoccupante: le giornaliste, superata una certa età, faticano a mantenere la loro visibilità e a trovare nuovi spazi, anche se il loro bagaglio di esperienza e competenza è enorme. Le figure femminili tendono a essere rimpiazzate da volti più giovani, come se la freschezza e la giovinezza fossero considerate attributi professionali. Al contrario, per i giornalisti uomini, l’età e i capelli grigi sono spesso percepiti come sinonimo di autorevolezza, esperienza e credibilità. Non subiscono lo stesso tipo di pressione estetica e possono continuare la loro carriera senza che il loro aspetto sia un fattore discriminante. Questo crea un divario generazionale e professionale ingiusto, che limita le opportunità per le donne e rinforza un’idea obsoleta che il valore di una giornalista sia legato alla sua età e al suo aspetto”.
Secondo lei, quanto pesa ancora oggi la rivalità tra donne in ambienti competitivi come quello giornalistico? E come si può trasformare questa dinamica in una rete di alleanze e sostegno reciproco? La meritocrazia è un valore spesso evocato, ma raramente applicato con coerenza.
“La rivalità tra donne in ambienti competitivi è una realtà. A volte si ha la sensazione di dover lottare per uno spazio limitato, il che può generare tensioni anziché solidarietà. Tuttavia, credo che si possa e si debba trasformare questa dinamica. Creando una rete di alleanze e sostegno reciproco, le donne possono diventare l’una la forza dell’altra. È fondamentale passare da un’ottica di competizione a una di collaborazione, facendo rete, riconoscendo che se una di noi ce la fa, è una vittoria per tutte. E che insieme siamo una forza”.
Quali azioni, secondo lei, servirebbero davvero per garantire pari opportunità e riconoscimento del merito nel giornalismo sportivo? Scuole, università e istituzioni hanno un ruolo fondamentale nel costruire una cultura più equa e consapevole.
“Per costruire una cultura più equa e consapevole, come giustamente suggerito, bisogna partire dalle basi: la scuola e l’università.
- Sensibilizzazione e ruolo degli uomini: È vero, non basta che gli uomini si “dissocino” dalla violenza e dalle discriminazioni. La sensibilizzazione deve partire da loro e vederli come protagonisti attivi del cambiamento. Le associazioni di categoria, le testate giornalistiche e le istituzioni educative devono promuovere dibattiti, workshop e campagne che coinvolgano attivamente gli uomini, invitandoli a diventare alleati nella lotta per l’uguaglianza e l’inclusione.
- Programmi di studio aggiornati e inclusivi: È fondamentale che le scuole e le università inseriscano nei loro programmi corsi specifici sull’educazione sessuale e affettiva. Questi corsi sono cruciali per insegnare ai giovani il rispetto, l’empatia e l’uguaglianza, valori che poi si rifletteranno nel loro approccio professionale. Anche nei corsi di giornalismo, dovrebbero essere introdotte materie specifiche sulla parità di genere e sull’inclusione. Gli studenti devono imparare a riconoscere e a evitare gli stereotipi, a usare un linguaggio neutro e a dare il giusto spazio a tutti gli sport e agli atleti, a prescindere dal loro genere o background.
- Supporto psicologico e professionale: L’introduzione di figure professionali come gli psicologi a supporto di studenti e professori è un passo essenziale. Queste figure possono aiutare a gestire le dinamiche di gruppo, a prevenire i fenomeni di bullismo e discriminazione e a creare un ambiente di apprendimento più sano e accogliente.
Secondo lei, in che modo questi attori possono contribuire concretamente a cambiare la narrazione e ad abbattere i pregiudizi di genere, soprattutto nel mondo dell’informazione sportiva? La ringraziamo di cuore per la disponibilità e la profondità con cui ha condiviso la sua esperienza e il suo lavoro.
“Scuole, università e istituzioni hanno un ruolo cruciale. Devono promuovere una narrazione più equa, inserendo nelle materie di studio non solo i grandi nomi del giornalismo, ma anche le pioniere e le protagoniste femminili del mondo dell’informazione sportiva. Insegnare fin da subito il valore dell’uguaglianza e smantellare i pregiudizi di genere è l’unica via per costruire una società e un mondo del lavoro più giusti. È ormai tempo che la scuola diventi un luogo di crescita completo. Per questo è necessario rendere obbligatoria l’educazione sessuale e affettiva, così da fornire ai ragazzi gli strumenti per affrontare relazioni sane e consapevoli. Serve inoltre un sostegno psicologico strutturato e sempre disponibile, per aiutare studenti e insegnanti a gestire stress, ansie e difficoltà quotidiane”.
Prima di salutarla, vorremmo rivolgerle una domanda che guarda al futuro: Che consiglio si sentirebbe di dare a una ragazza che oggi sogna di intraprendere la carriera di giornalista sportiva? Quali qualità, strumenti e consapevolezze ritiene fondamentali per affrontare questo percorso?
“A una ragazza che oggi sogna di diventare giornalista sportiva, direi di non farsi mai intimidire. Le qualità fondamentali sono la passione, la curiosità e la resilienza. Non smettere mai di studiare, leggere e aggiornarsi. Sii curiosa, vai oltre i titoli, scava in profondità e cerca sempre la tua voce, perché l’originalità è la tua arma più potente. Non avere paura di fare domande e di farti valere, e – soprattutto – cerca colleghe che possano essere tue alleate, non rivali”.
