
Social e minori: una legge per restituire tempo, tutela e dignità all’infanzia.
Nel cuore di Montecitorio, un disegno di legge bipartisan promette di rivoluzionare il rapporto tra minori e social media. Presentato da Fratelli d’Italia e sostenuto anche dal Partito Democratico e dai suoi alleati, il provvedimento mira a porre fine al fenomeno dei baby influencer, vietando l’accesso ai social fino all’adolescenza e impedendo sponsorizzazioni fino ai 18 anni. Una convergenza politica rara, che nasce da una consapevolezza condivisa: l’infanzia non può essere monetizzata.
Il volto nascosto dei social
Il termine “baby influencer” evoca immagini di bambini sorridenti davanti a uno smartphone, intenti a promuovere prodotti, esperienze, stili di vita. Ma dietro quei sorrisi si celano rischi profondi e spesso invisibili. L’utilizzo precoce dei social media espone i minori a problemi cognitivi, distorsioni dell’immagine corporea, depressione, cyberbullismo. E, soprattutto, a una precoce esposizione al mercato, dove ogni gesto può diventare merce, ogni emozione contenuto.
I numeri parlano chiaro
Secondo Save the Children, il 62,3% dei preadolescenti italiani tra gli 11 e i 13 anni ha almeno un account social. Un dato impressionante, soprattutto se si considera che la legge europea (GDPR) stabilisce il limite minimo di 14 anni per il consenso al trattamento dei dati, riducibile a 13 solo con l’autorizzazione dei genitori. Ma i controlli sono deboli, spesso inesistenti. E così, un bambino su tre usa lo smartphone ogni giorno, in un mondo digitale che non è stato pensato per lui.
Una norma che vuole proteggere
Il disegno di legge in discussione propone di alzare la soglia minima per l’accesso ai social a 14 o 15 anni, e di vietare le sponsorizzazioni fino alla maggiore età. Un gesto che non è solo normativo, ma profondamente culturale. Significa riconoscere che l’infanzia ha bisogno di tempo, di protezione, di spazi non colonizzati dalla logica del profitto. Significa dire che non tutto può essere condiviso, venduto, monetizzato.
Genitori, piattaforme, responsabilità
Ma il dibattito non si esaurisce nella regolamentazione. Tocca corde più profonde: il ruolo dei genitori, la responsabilità delle piattaforme, il senso stesso dell’educazione digitale. Quando un bambino guadagna attraverso i social, chi gestisce quei soldi? Chi decide cosa pubblicare? Chi tutela il suo benessere psicologico? Il rischio di sfruttamento è reale, anche se mascherato da affetto, da orgoglio, da ambizione.
Custodire l’infanzia, non monetizzarla
In questo contesto, il provvedimento legislativo assume un valore simbolico. È un tentativo di restituire all’infanzia la sua dignità, di sottrarla alla vetrina permanente in cui troppo spesso viene esposta. È un invito a riflettere sul nostro rapporto con la tecnologia, sulla velocità con cui abbiamo accettato che anche i più piccoli possano diventare “creatori di contenuti”.
La questione non è demonizzare i social, ma comprenderne la portata. I social media possono essere strumenti di espressione, di relazione, di crescita. Ma solo se usati con consapevolezza, con maturità, con regole chiare. E i bambini, per definizione, non hanno ancora gli strumenti per navigare in questo mare complesso.
Una convergenza che fa sperare
La politica, per una volta, sembra aver colto il senso profondo del problema. E lo fa con una convergenza che supera gli schieramenti, perché la tutela dei minori non è né di destra né di sinistra: è un dovere collettivo. Il disegno di legge sui baby influencer non è solo una norma: è una dichiarazione di intenti. È il segnale che l’Italia vuole proteggere i suoi bambini non solo dai pericoli fisici, ma anche da quelli invisibili, digitali, emotivi.
In un’epoca in cui tutto è condivisibile, forse il gesto più rivoluzionario è custodire. Custodire l’infanzia, la lentezza, il diritto a non essere sempre online. Custodire il silenzio, la noia, la possibilità di crescere senza dover piacere a un algoritmo.