Boom! Flash! Swipe! Like! Repeat. È questo il nuovo ritmo della musica pop? O forse è l’ultimo battito della sua anima? L’estetica della musica pop nel 2025 è uno spettacolo di luci LED, glutei tonici e selfie stick. Il suono? Un dettaglio. Una postilla. Un residuo archeologico per boomer nostalgici.
Negli ultimi giorni, Milano è stata testimone di due eventi titanici – almeno secondo i giornalisti embedded nelle majors discografiche: Dua Lipa e Elodie in concerto. “Show memorabile!” scrivono. “Kolossal riuscito!” strillano. Ma la verità, ahimè, è molto meno epica e molto più… coreografica. In entrambi i casi, ciò che è andato in scena non è stato uno spettacolo musicale, bensì un body show in scala XXL. Canti? Qualche playback di passaggio. Musica? Forse nel soundcheck. L’unica vera protagonista: la coreografia dell’ammiccamento.
Pop music: da arte a avatar
Un tempo, la musica si ascoltava. Oggi si guarda. Si scrolla. È diventata un’esperienza visiva, non più auditiva. È il trionfo del corpo come contenuto. E in questo panorama ultrapatinato, anche il concetto di “estetica” si è liquefatto. O meglio, aeriformizzato – perché nel nostro “tempo aeriforme” (copyright Bauman 2.0), anche il bello ha perso peso specifico.
Il corpo di ballo si contorce, le popstar si passano l’asta del microfono tra le gambe come fosse una clava tribale. Le canzoni? Orpelli. Testi come “è qui dentro la mia festa”, cantati mentre ci si tocca l’organo genitale. Che dire? Libertà d’espressione o crisi d’identità estetica? Anti-estetica, più precisamente.
L’era degli screenagers: il concerto come selfie continuo
Ma il dato più inquietante non è l’appiattimento del linguaggio musicale sul linguaggio del corpo. È la mutazione antropologica del pubblico. Gli screenagers – i figli dell’inquadratura verticale perenne – non vanno più ai concerti per sentire. Ci vanno per testimoniare la propria presenza. Ogni evento è un pretesto per girare reels, per taggare, per accumulare views. La musica è lo sfondo. Il vero protagonista è il loro feed.
Un tempo si andava a un live per cantare sotto al palco, per sudare, per stare insieme, per vivere. Oggi si va per documentare l’evento mentre lo si perde. Un’autocelebrazione a colpi di stories. L’unico suono che conta è il click del telefono. Il resto? Rumore di sottofondo.
Dal pop all’apatia: i figli dell’algoritmo
E allora dove ci porteranno questi screenagers? Nel baratro dell’insignificanza, forse. Questi ragazzi, iperconnessi ma isolati, hanno seri problemi di empatia. Mancano di rispetto verso genitori, insegnanti, regole e perfino verso se stessi. Non è un caso se i titoli di cronaca sono pieni di episodi di violenza banale, gratuita, immotivata. Basta uno sguardo sbagliato per far scattare la furia.
Tutto è performance. Tutto è provocazione. Tutto è superficie.
E mentre le pop star si svestono e si toccano in nome della libertà, i loro fan si spogliano della coscienza, dell’attenzione, del rispetto. Nessuno parla più di contenuti, perché i contenuti fanno male: impongono uno sforzo, una riflessione, una profondità. E nella superficie infinita dello scroll, il pensiero è diventato un bug.
Una musica senza anima per una generazione senza volto
Dove ci porteranno, allora, gli screenagers? La risposta, forse, è nel silenzio che resta dopo l’ultimo TikTok. Una musica pop svuotata di senso, una generazione sedotta e abbandonata dall’immagine, un’estetica che è solo posa. Il “bello” non è più ciò che emoziona, ma ciò che performa bene su uno schermo da 6 pollici.
La musica pop è ancora viva? Oppure è diventata un video-meme a rotazione continua, in attesa del prossimo trend virale? Ai posteri – ammesso che abbiano tempo per ascoltare – l’ardua sentenza.
