
È bastata una manciata di giorni, e il vento è cambiato. Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU per la Palestina, è passata dal pantheon della sinistra militante ai tribunali dell’opinione pubblica. Da “simbolo di verità” a “caso umano”. Tutto nel tempo di un talk show.
Dal faro pro Palestina alla fuga dallo studio
La parabola comincia domenica scorsa su La7. Albanese è ospite in uno dei soliti salotti dove la politica si mischia all’intrattenimento. Poi accade l’imprevisto: il giornalista e scrittore Francesco Giubilei cita la posizione della senatrice a vita Liliana Segre sulla strage di Gaza. In un lampo, Albanese si alza, lascia lo studio con gesto secco, la stizza visibile come un neon acceso.
Da quel momento, la giurista – fino ad allora considerata un faro morale per i movimenti pro Palestina in Italia – diventa un bersaglio. Le anime moderate della sinistra prendono le distanze, i talk show affilano i coltelli, e i social si trasformano in tribunali virtuali. La “relatrice dell’ONU” ora è un corpo estraneo nella narrazione perfetta dell’impegno civile.
La frase su Napoli e la tempesta perfetta
E poi arriva la frase. Quella che scatena la tempesta. Durante il podcast Tintoria di Daniele Tinti e Stefano Rapone, Albanese commenta le manifestazioni pro Gaza con tono colloquiale, e dice:
“Questo è il primo genocidio in cui io vedo un moto popolare di sdegno, che si sta facendo massa critica e che scende nelle strade, lo dico pure a Milano, nel cuore della notte, in un giorno lavorativo… Milano non è Napoli, nel senso che lì ci pensano che si devono svegliare alle 6.”
Silenzio. Poi il boato dei social. Napoli non è Milano? Per molti napoletani, quelle parole non suonano come una battuta, ma come un colpo basso da parte di una conterranea. Già, perché Albanese è nata ad Ariano Irpino, provincia di Avellino. Una “figlia del Sud” che, agli occhi di molti, ha appena voltato le spalle alla sua stessa gente.
La reazione di Angelo Pisani: “Una violenza contro i napoletani”
A guidare la rivolta è Angelo Pisani, storico avvocato di Diego Armando Maradona. Con tono severo, annuncia una class-action contro Francesca Albanese. “Una donna che semina discriminazione esercita una forma subdola di violenza”, dichiara. Secondo Pisani, quelle parole rappresentano “una violenza inaccettabile contro i napoletani”, quasi una fobia sociale travestita da leggerezza.
Il legale promette di agire “perché comprenda che cosa significa rispettare i napoletani e, soprattutto, rispettare la bandiera italiana e la Costituzione”. E aggiunge: “Nessuno può permettersi di soffiare impunemente sul fuoco della guerra. Oggi dobbiamo tutti impegnarci per favorire pace e dialogo”.
La caduta degli idoli
Così, in pochi giorni, Francesca Albanese è diventata un caso da manuale di comunicazione politica contemporanea. Da un lato, i sostenitori che la difendono come vittima del sistema mediatico; dall’altro, chi la considera un simbolo dell’arroganza intellettuale di certa élite umanitaria.
Nel frattempo, il suo nome – un tempo sinonimo di coraggio diplomatico – è diventato un campo di battaglia semantico, dove si scontrano identità, appartenenza e linguaggio. Il tutto partito da una frase, detta con leggerezza, che ha attraversato la rete come un lampo. Tom Wolfe avrebbe sorriso: la società dello spettacolo colpisce ancora.