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Genocidio Gaza: la verità che il mondo non vuole ascoltare
“Che vuol dire finire il lavoro?” ha chiesto Annie Lennox, con voce ferma e occhi colmi di indignazione, durante l’evento Together for Palestine a Londra. La cantautrice britannica non ha pronunciato solo una frase: ha lanciato un interrogativo etico che attraversa confini, ideologie e silenzi. In un mondo dove le parole costruiscono realtà, quel “lavoro” evocato da alcuni leader politici non è altro che la sistematica distruzione di una popolazione. E Gaza, oggi, ne è il teatro più crudele.
Il linguaggio come arma
“Finire il lavoro” è un’espressione che, in contesti bellici, può sembrare strategica. Ma quando applicata a una popolazione civile di oltre due milioni di persone, diventa un’arma retorica. Il linguaggio non è neutro: plasma la percezione, giustifica l’azione, anestetizza la coscienza. In passato, termini come “pulizia etnica” o “danno collaterale” hanno mascherato atrocità. Oggi, “finire il lavoro” rischia di diventare il mantra di un genocidio Gaza normalizzato, accettato, persino pianificato.
Lennox lo ha detto chiaramente: “Stiamo parlando di una popolazione di oltre due milioni di persone che sono state massacrate, macellate, bruciate, affamate negli ultimi due anni.” E ha aggiunto: “Chiunque sia rimasto, va disperatamente a sud verso il nulla, non può nemmeno permettersi una tenda, non può nemmeno trovare un po’ di terra in cui stare.”
Gaza: una realtà disumanizzata
Negli ultimi due anni, Gaza è stata teatro di bombardamenti incessanti, assedi, interruzioni di aiuti umanitari. Le immagini che arrivano—quando arrivano—mostrano bambini bruciati, madri disperate, medici uccisi mentre tentano di salvare vite. I sopravvissuti si spostano a sud, verso il nulla, senza tende, senza terra, senza voce. Giornalisti, infermieri, operatori umanitari: tutti bersagliati, tutti sacrificabili. Parlare di genocidio Gaza non è un’esagerazione retorica, ma una constatazione basata su fatti, testimonianze e silenzi assordanti.
Lennox ha ricordato: “Giornalisti, operatori, sanitari, infermieri, medici, bambini, madri, padri, massacrati.” Una lista che non è solo cronaca, ma elegia.
La voce dell’arte contro il silenzio
Annie Lennox non è nuova all’attivismo. Ma in questo intervento, ha scelto di non cantare. Ha scelto di parlare. Di denunciare. Di chiedere. La sua voce si è unita a quella di altri artisti, attivisti e cittadini che rifiutano di restare indifferenti. L’arte, in questo contesto, non è decorativa: è testimonianza, è resistenza, è memoria. E quando la politica tace o distorce, la musica e la parola diventano strumenti di verità.
Il genocidio Gaza e la responsabilità collettiva
Usare la parola “genocidio” implica una responsabilità. Significa riconoscere che ciò che accade non è casuale, né inevitabile. È il frutto di scelte, di strategie, di complicità. Significa anche chiedersi: cosa possiamo fare? Come possiamo impedire che il linguaggio diventi complice della violenza? Come possiamo restituire umanità a chi è stato ridotto a numero, a danno collaterale, a “lavoro da finire”?
Una domanda che resta
“Che vuol dire finire il lavoro?” Non è solo una provocazione. È una domanda che ci riguarda tutti. Perché ogni parola pronunciata, ogni silenzio mantenuto, ogni articolo scritto contribuisce a costruire o distruggere la realtà. Gaza non è lontana. È qui, nei nostri schermi, nelle nostre coscienze, nei nostri vocabolari. E finché non risponderemo con chiarezza, con coraggio, con umanità, il lavoro non sarà finito. Ma non nel senso in cui lo intendono i carnefici. Nel senso in cui lo intende chi resiste, chi racconta, chi non smette di credere nella dignità umana.
