Ventisette chiamate per dire addio.
Una per ogni giocatore. Una per ogni volto che ha incrociato in questi due anni juventini. Cristiano Giuntoli se ne va così, in punta di piedi, con l’aplomb di chi vuole lasciare una buona immagine dietro di sé. Ma dietro quella cortina di commiato sentimentale, rimane un dato incontestabile: la sua Juventus è stata un fallimento.
La rivoluzione mai arrivata
Quando nel 2023 arrivò da Napoli, in molti sognavano una svolta. Giuntoli era l’uomo del miracolo partenopeo, l’artefice silenzioso dello scudetto azzurro, colui che aveva portato Osimhen, Kvaratskhelia, Kim. Ci si aspettava una rivoluzione simile anche a Torino: scouting aggressivo, idee chiare, gestione moderna.
E invece? Invece la Juventus ha continuato a vivere in un limbo confuso, prigioniera delle sue contraddizioni. Un progetto tecnico mai decollato, un allenatore — Thiago Motta — scelto e poi scaricato dopo qualche mese, una rosa piena di giocatori inadatti a un’identità di gioco definita, e una dirigenza che ha sempre dato la sensazione di non sapere dove andare.
Il paradosso Tudor
A salvare la stagione è stato Igor Tudor, traghettatore arrivato a nove giornate dalla fine, che ha portato la squadra al quarto posto e in Champions League. Un paradosso perfetto: non l’uomo scelto da Giuntoli, ma quello chiamato per rimediare al suo errore. E adesso che la Juventus si prepara al Mondiale per Club, con Tudor confermato in panchina, l’ex dirigente sembra più concentrato sulle telefonate d’addio che su un bilancio serio della sua gestione.
Atletico Madrid o relax?
Le cronache dicono che ora Giuntoli sarebbe tentato dall’Atletico Madrid. Un’opzione affascinante, internazionale, ma anche rischiosa. Nel frattempo, l’ex uomo mercato della Juve parla della necessità di “passare più tempo con la compagna e il figlio”. Comprensibile. Ma anche questa sembra l’ennesima scappatoia comoda per non fare i conti con la realtà: dopo due anni a Torino, il bilancio è negativo. Non bastano le telefonate per cancellarlo.
Dov’era il progetto?
In due anni, nessun vero salto qualitativo.
– I giovani? Bruciati o gestiti male.
– I grandi nomi? Pochi e senza impatto.
– La rosa? Incompleta, confusa, poco funzionale.
– Il gioco? Inesistente per lunghi tratti.
E non si può sempre dare la colpa agli altri. Allegri prima, Motta poi, e infine il caos societario: tutto vero, ma un direttore tecnico deve sapersi imporre, dettare una linea. Giuntoli non l’ha fatto. Si è limitato a “galleggiare” in una Juventus che aveva bisogno di scelte forti, non di compromessi e mezze misure.
Le 27 chiamate non bastano
Sono belle, le 27 chiamate. Commoventi, quasi. Ma non raccontano il vero epilogo di questa avventura. La Juve del post-Allegri aveva bisogno di un uomo coraggioso, visionario, capace di costruire — e non solo di gestire. Invece, Giuntoli ha lasciato un cantiere aperto, senza piani né fondamenta. Un uomo che è sembrato sempre più spaesato che stratega. E forse, al netto dei ringraziamenti, anche i giocatori lo sapevano.
Un addio senza eredità
Cosa resta oggi di Cristiano Giuntoli alla Juventus? Poco. Troppo poco.
Nessun giocatore simbolo. Nessuna plusvalenza memorabile. Nessun modello sportivo replicabile. Resta solo l’immagine di un uomo stanco, che saluta con educazione ma senza lasciare traccia.
Resta il sospetto — legittimo — che quell’avventura napoletana fosse più legata al contesto favorevole che al suo genio personale. Perché a Torino, senza De Laurentiis, senza Spalletti, e con la pressione alle stelle, Giuntoli ha mostrato tutti i suoi limiti.
In conclusione
Cristiano Giuntoli ha fallito. E lo ha fatto con stile, certo. Ma sempre di fallimento si tratta. Ora potrà rilassarsi con la famiglia, o magari volare a Madrid. Ma se davvero vorrà rilanciarsi, dovrà imparare dai propri errori. Perché nel calcio di oggi, non bastano le chiamate. Servono visione, coraggio, e risultati.
