Il deepfake come ferita collettiva: scrivere per proteggere
Non sono tra le donne ritratte. Non ho trovato il mio nome su quel sito. Ma ho sentito la ferita. L’ho sentita come collega, come donna, come cittadina. L’ho sentita come essere umano che crede ancora che il corpo sia un luogo sacro, non un oggetto da manipolare.
Il sito si chiama CFake. E non è solo un archivio di immagini modificate: è un laboratorio di violenza digitale. Un luogo dove l’intelligenza artificiale viene usata per creare deepfake pornografici di giornaliste, attrici, influencer. Corpi ricostruiti, volti rubati, dignità calpestata.
Le donne coinvolte e il coraggio della denuncia
Tra le donne coinvolte ci sono Francesca Barra, Selvaggia Lucarelli, Diletta Leotta, Chiara Ferragni. Alcune hanno denunciato pubblicamente. Altre, forse, stanno ancora cercando le parole. E noi, come colleghi, come cittadini, abbiamo il dovere di trovarle per loro.
Questa non è pornografia. È una forma di violenza. È la costruzione di un’immagine falsa che può distruggere una reputazione, un equilibrio, una vita. È la negazione del consenso. È l’uso perverso della tecnologia per trasformare il volto in merce, il corpo in spettacolo, la donna in bersaglio.
Il dovere di raccontare senza esporre
Come giornalista, mi interrogo. Dove finisce il diritto di cronaca e dove inizia il dovere di protezione? Possiamo raccontare senza esporre? Possiamo denunciare senza replicare la violenza?
Ho scelto di non mostrare screenshot, di non elencare nomi che non hanno scelto di esporsi. Di non contribuire, nemmeno involontariamente, alla diffusione di quel materiale. Perché ogni nome non citato è un gesto di rispetto. Ogni immagine non mostrata è una forma di cura.
Serve una risposta culturale e normativa
Ma non basta. Serve una legge che riconosca il deepfake porn come reato. Serve una rete di alleanza tra giornalisti, giuristi, attivisti. Serve una cultura che smetta di cercare il corpo e cominci a cercare la persona.
Questo articolo è una denuncia. Ma è anche un abbraccio. A chi ha parlato. A chi non riesce. A chi ha paura. A chi resiste.
Una ferita condivisa
Non è il mio corpo, ma è la mia ferita. E la racconto perché nessuno debba più raccontarla così.
