Foto: Ilbianconero
No, non è solo calcio. Non lo è mai stato. A Napoli, il pallone è un feticcio sacro, una reliquia intoccabile, un legame alchemico che unisce anime, cancella cognomi e costruisce un’identità collettiva più potente di qualsiasi cittadinanza. Il Napoli ha vinto il suo quarto scudetto, e le vie della città sono diventate un’unica, gigantesca, indimenticabile preghiera danzante.
Altro che provincialismo. Altro che esagerazione. Qui siamo nel regno del rito, della trasfigurazione. Le feste per lo scudetto del Napoli non sono solo cori e trombette: sono esorcismi collettivi, sono l’eco di una città che ogni volta muore e risorge come una Fenice vestita d’azzurro.
Il cuore oltre la linea: McTominay e il fiato sospeso
Sì, era tutto pronto. I balconi grondavano bandiere, i quartieri odoravano di fuochi d’artificio ancora non esplosi, le piazze millenarie pronte al battesimo del gol. Poi, il fiato sospeso di milioni di persone è rimasto impigliato in un gesto venuto da lontano, dalla Scozia: Scott McTominay ha messo in pausa il tempo. Un respiro trattenuto, un universo incantato. Ma Napoli non è solo Napoli. È diaspora dell’anima, è un’identità planetaria. Da Buenos Aires a Brooklyn, da Tokyo a Berlino, lo scudetto del Napoli è risuonato in lingue diverse ma con un solo accento: quello del cuore.
Lukaku il titano e il miracolo Conte
A chiudere il cerchio, a consegnare il quarto titolo nazionale al Napoli, ci ha pensato Romelu Lukaku, il gigante gentile che ha scalato il campionato portando sulle spalle le montagne delle critiche, degli infortuni, delle attese. Una giocata imperiosa, una zampata da eroe epico. Lo Stadio Diego Armando Maradona ha tremato di gioia. La Storia si è fermata per un attimo, poi ha scritto: Napoli, campione d’Italia.
E mentre i titoli dei giornali rimbalzano tra classifiche e voti, tra premi e ipotesi, il vero protagonista – il vero demiurgo – resta lui: Antonio Conte da Lecce. Il tecnico arrivato in una Napoli ferita, spaventata, reduce da un campionato più simile a un film horror che a una stagione sportiva. Ha preso una squadra stanca, ha perso Kvaratskhelia a gennaio, con mezza infermeria costantemente piena, e l’ha trasformata in un’armata silenziosa, letale, umile. Altro che tiki-taka. Qui c’era da lottare, da trasformare guerrieri in fratelli, muscoli in identità.
I critici del bel gioco? Conte ha vinto lo stesso
C’è chi ha parlato, parlato troppo. I “buongustai del pallone”, quelli con il palato fino e la memoria corta, hanno osato mettere in croce Conte per un gioco troppo verticale, troppo cinico, troppo… poco Napoli. Ma lui è rimasto lì, fermo al timone, capitano di una nave che non ha mai smesso di crederci, e che alla fine è entrata nel porto della gloria tra ali di folla in delirio.
Festa e gratitudine: domani sarà un altro giorno
Ora non è il momento delle domande, delle strategie, dei contratti. Domani forse Antonio Conte saluterà. E se lo farà, lo farà da vincitore. Ma oggi, oggi Napoli è un canto d’amore, un incantesimo che attraversa i secoli e le generazioni. I bambini salteranno sui letti gridando il nome del Napoli, i vecchi piangeranno abbracciando il televisore, i murales prenderanno vita sui muri già consumati dal sole e dal tempo.
Napoli ha vinto. Ancora. Ag4in.
Napoli è viva. Sempre.

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