
Nine Inch Nails a Milano: un rito oscuro che ridicolizza le rockstar-spazzatura del mainstream
Nel crepuscolo culturale in cui ci troviamo, con i grandi nomi del rock italiano ridotti a santini da supermercato – sì, proprio loro, i Vasco Rossi, i Ligabue – intenti a mungere le stesse vacche sacre ormai rinsecchite da trent’anni, i Nine Inch Nails arrivano a Milano e mostrano a tutti cosa significa ancora suonare davvero dal vivo. Non vendere emozioni prefabbricate, ma viverle, strapparle, e poi scagliarle addosso a chi ascolta. Altro che cover band di sé stessi con le tasche piene e l’anima vuota.
Lo show milanese è stato un rito laico e feroce, un’immersione collettiva nel dolore lucido e nella catarsi elettronica, con una scaletta da far tremare i polsi e un impianto sonoro che ha il potere di azzerare le sinapsi e riscriverle in modalità NIN.
L’ouverture acida di Boys Noize
Ma andiamo con ordine. Prima dell’arrivo della macchina da guerra guidata da Trent Reznor, l’aria è già satura di basse frequenze grazie a Boys Noize. Un nome che per chiunque bazzichi anche solo di striscio l’universo elettronico significa groove meticcio, la saldatura perfetta tra house e big beat, con venature acide alla Chemical Brothers e zampate pop alla Fatboy Slim. Il suo set – quasi un’ora e un quarto – è un esperimento sonoro riuscito a metà, complice l’orario (sole ancora alto, alle otto di sera) e un pubblico che scalpita per i NIN. Il buon Alexander Ridha si diverte, sorride, suda: il pubblico ondeggia distratto, ma gli va riconosciuto di aver tentato la scintilla in un’arena che attendeva altro fuoco.
L’arrivo nell’ombra: “Somewhat Damaged” e la discesa
Poi cala il buio. Letteralmente. Le luci si spengono, il fumo si alza. Le prime note di “Somewhat Damaged” sono un cuneo che si pianta nei timpani e spalanca l’ingresso a una delle performance più intense degli ultimi anni. Reznor emerge dalla tenebra con la sua silhouette scolpita e la voce lucida come vetro rotto. Altro che “invecchiato”: è in forma strepitosa, posseduto dallo spirito che ha animato The Downward Spiral e che ancora oggi brucia vivo.
Nine Inch Nails una band, cinque predatori del suono
Quello che segue è pura devastazione estetica. Ilan Rubin martella la batteria come se dovesse abbattere un palazzo. Robin Finck, con le sue trame chitarristiche fatte di acciaio e nebbia, ricama ferite aperte nell’aria. Alessandro Cortini, nomade dei suoni, fluttua tra synth, basso e tastiere con un’intensità silenziosa. E poi c’è lui, l’altro Reznor: Atticus Ross, architetto sonoro imperturbabile, che dal vivo è semplicemente mostruoso. Le sue manipolazioni sembrano orchestrazioni aliene, e il modo in cui si fonde con la band è al limite del mistico.
Una scaletta perfetta: da “March of the Pigs” a “Hurt”
Questa non è solo una serie di brani. È un’esplorazione brutale e lucida di tutte le sfumature della rabbia, del dolore, della dolcezza distorta. “March Of The Pigs” e “Piggy” scoperchiano le interiora del pubblico. “Closer” è ancora oggi un inno alla perversione emotiva. Poi arrivano le sorprese: “Burn”, da Natural Born Killers, e la potentissima “The Perfect Drug” da Lost Highway, due coltellate sonore che riattivano la connessione con l’universo David Lynch. E c’è spazio anche per una versione trascinante di “I’m Afraid Of Americans” di David Bowie, con Reznor che lancia una delle sue rare (ma affilate) invettive verbali.
Infine, la commozione. “Gave Up” e “Head Like A Hole” strappano l’ultimo fiato, e poi arriva lei: “Hurt”. Inevitabile. Ancora definitiva. Un addio che brucia.
Altro che pensionati del rock
Uscendo dall’arena, sulle note del tema di Twin Peaks ci rendiamo conto che questa serata è stata qualcosa di molto diverso da uno show. È stata un’esperienza, una messa elettronica, un viaggio nella carne e nell’anima che solo i NIN possono ancora permettersi di offrire. Mentre altrove si celebrano tour-fotocopia fatti per ingrassare conti in banca, i Nine Inch Nails sputano sangue e arte vera, ogni sera, su ogni palco.
Chi ha occhi per vedere e orecchie per ascoltare, lo sa: il rock non è morto. È solo stato sotterrato da chi ne ha venduto il cadavere a suon di biglietti da 90 euro e testi da birreria. Reznor e soci sono lì per disseppellirlo. Con violenza. Con amore. Con verità.