Tre gol subiti, zero segnati, ancora meno dignità.
Norvegia-Italia 3-0 è molto più di una disfatta. È una sentenza. E non solo per la qualificazione al Mondiale 2026 — sempre più a rischio — ma per tutto un sistema che ha smesso di evolversi da almeno due decenni. Se non fosse tragico, sarebbe ridicolo: l’Italia, quattro volte campione del mondo, incapace di tenere il campo contro una Nazionale che fino a ieri consideravamo “provinciale”. Ma la verità è che non esistono più le piccole — esistiamo solo noi, ridimensionati e mediocri.
Una Nazionale senza anima né idee
Il campo ha detto tutto. Un’Italia senza identità, priva di gioco, lenta e prevedibile. In balia della Norvegia, che ci ha messo solo corsa, ordine e fame. Tanto è bastato. Le scelte tecniche dell’allenatore (che evitiamo per carità cristiana di nominare in questo momento), sono sembrate incomprensibili se non addirittura provocatorie: moduli sbagliati, uomini fuori ruolo, attaccanti lasciati soli, difesa molle. Una gestione che più che da commissario tecnico, sembrava da turista improvvisato.
Ma se la colpa fosse solo di chi siede in panchina, sarebbe fin troppo facile.
La resa di un sistema
Il problema è più grande. Il problema è sistemico.
Il calcio italiano è diventato una macchina arrugginita, guidata da dirigenti che vivono nel passato e si rifiutano di guardare in faccia il presente. Presidenti di Lega e federazioni che si passano la poltrona come fosse un trono medievale, senza alcuna visione, senza alcuna voglia di cambiare davvero. Ogni sconfitta, ogni eliminazione, ogni figuraccia internazionale viene spiegata con scuse trite: “abbiamo un problema coi vivai”, “bisogna dare tempo”, “non ci sono più i Totti e i Del Piero”. Sì, grazie. Ma chi dovrebbe formare i nuovi Totti e Del Piero? Chi continua a boicottare le riforme dei campionati, a bloccare i giovani stranieri per salvaguardare presunti “talenti” italiani mai esplosi?
La risposta è semplice: gli stessi matusalemme del pallone che da trent’anni infestano stanze, riunioni e consigli federali. Quelli che “prima o poi torneremo grandi”, ma nel frattempo affondano tutto ciò che toccano. Il risultato? Un movimento che non produce talento, non innova, non sperimenta, e si accontenta di vivacchiare nei ricordi del 2006.
Norvegia: la nuova normalità
Il dato più triste è che non c’è più nulla di scandaloso nel perdere 3-0 dalla Norvegia. È semplicemente lo specchio del nostro livello attuale. Siamo una squadra mediocre, gestita da mediocri, all’interno di un sistema mediocre. La Norvegia ha messo in campo una generazione di calciatori affamati, atleticamente e tatticamente pronti, guidati da una federazione che ha investito in strutture, formazione e mentalità. Mentre noi, ancora a sognare le “notti magiche” di Vialli e Baggio, siamo fermi lì. A guardare gli altri correre.
Verso il Mondiale 2026 (forse)
A questo punto la qualificazione al Mondiale 2026, che si giocherà tra Messico, Stati Uniti e Canada, è diventata più che un’incognita: è quasi una chimera. Se non cambiamo tutto, dalla testa in giù, non ci andremo. E forse è anche giusto così. Forse serve un’altra esclusione, un altro fallimento, per capire che non basta più attaccare la maglia azzurra sul petto per sentirsi i migliori del mondo.
Servono idee, programmazione, coraggio. Servono dirigenti giovani, competenti e liberi da logiche di potere. Servono allenatori preparati e responsabili, non improvvisatori in cerca di alibi. Servono club che abbiano il coraggio di investire nei vivai e nel calcio vero, e non nella narrazione da social.
È tardi, ma non troppo tardi
Il calcio italiano è malato. Ma non è morto — ancora. Questa sconfitta può diventare un punto di svolta, se solo qualcuno avrà la dignità e l’umiltà di farsi da parte. Se solo la parola “merito” tornerà ad avere un senso nelle scelte che contano.
Perché se continuiamo così, non sarà solo il Mondiale 2026 a sfuggirci. Sarà tutto il futuro.
E quando finalmente ci renderemo conto di essere diventati una ex grande Nazione calcistica, sarà ormai troppo tardi per cambiare.

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