
Foto di Ezio Vendrame con Stefano Civeriati, opera di Wolf2008, CC BY‑SA 4.0 (via Wikimedia Commons)
Iconico. Dannatamente iconico. Uno di quelli che non puoi descrivere con le statistiche, uno che sfugge alle leggi della tattica e alle geometrie della carriera. Ezio Vendrame, classe 1947, è stato il talento più sfuggente e romantico del calcio italiano. Non una promessa mancata, no: una promessa che non ha mai voluto essere mantenuta. Perché quando sei poeta, scrittore, anarchico, ribelle, hippy e calciatore tutto nello stesso corpo, ogni stadio diventa una pagina da scrivere, e ogni dribbling una strofa di libertà.
Nel grande romanzo del calcio, Vendrame è quel capitolo che i benpensanti avrebbero voluto strappare, e che invece gli innamorati del pallone leggono con le lacrime agli occhi. Il suo nome era poesia fuori tempo massimo in un’Italia che voleva rigore, ordine, geometrie alla Trapattoni. E invece lui: capelli lunghi, baffi da poeta maledetto, sguardo obliquo, spirito bohémien. Una creatura pasoliniana con i piedi di George Best.
L’enfant terrible del pallone
A guardarlo in campo – con quella camminata dinoccolata, la palla incollata ai piedi e lo sguardo che sfidava i cieli – sembrava una rockstar prestata al calcio. Giampiero Boniperti, uomo tutto d’un pezzo e presidente della Juventus, vide in lui Mario Kempes con i capelli di un profeta di Woodstock. Ma Ezio era di più, era fuori catalogo. Vendrame era il calcio che si scrive con la minuscola ma si legge con la M maiuscola: Magia, Maledizione, Meraviglia.
Vicenza, la provincia che diventa leggenda
Non giocò mai in una big – Milan, Juve, Inter lo guardarono, forse provarono a corteggiarlo – ma Ezio scelse la provincia, perché lì il calcio era ancora carne, fango e cuore. A Vicenza diventò un mito, un dio pagano che stregava i tifosi con colpi di tacco, dribbling inutili ma bellissimi, lanci visionari e un’arte che raramente si vede su un campo di calcio.
Vendrame era teatro e disincanto, genio e fuga. E come George Best, il confronto più facile e più vero, trasformava ogni partita in uno spettacolo dell’assurdo.
Napoli, un amore mai nato
Napoli poteva essere la svolta, l’abbraccio definitivo con il grande calcio. Ma Luis Vinício e Vendrame erano anime troppo diverse per convivere. Lui, il brasiliano di metodo e disciplina. Ezio, il cantautore del pallone. Finì male, finì in tribuna. E fu proprio a quella tribuna che dedicò il suo libro più famoso: “Se mi mandi in tribuna godo”. Una dichiarazione d’amore (o disprezzo?) al calcio moderno, un trattato di filosofia punk sulla libertà e la dignità. Il calcio come specchio di una società ipocrita, in cui Ezio non voleva riconoscersi.
Padova e la leggenda dell’abbraccio al tifoso
Poi Padova. E una delle scene più iconiche della sua carriera – roba che oggi diventerebbe virale in 30 secondi. In mezzo a una partita vera, con i 90 minuti in corso, Ezio fermò tutto. Fermò il gioco, prese la palla tra le mani e corse verso gli spalti: tra il pubblico c’era un amico che non vedeva da tempo. Lo salutò con un sorriso che vale più di mille gol. Perché il calcio per lui era questo: emozione, contatto umano, rottura dello schema. Poesia.
Il ritiro e il rifugio nella parola
Nel 1981 disse basta. Tornò nella sua Casarsa della Delizia, tra i filari del Friuli e le ombre lunghe di Pasolini. Lì, lontano dai riflettori, trovò pace solo nella poesia. Scrisse, tanto. Scrisse come aveva giocato: senza filtri, senza concessioni, con rabbia e amore. Lo avrebbero voluto opinionista, allenatore, volto da salotto. Ma Ezio no. Lui preferiva intervistarsi da solo sulla tomba di Pasolini.
Lo riportò in scena, per un attimo, Paolo Bonolis a Sanremo 2005. Una comparsata. Un’apparizione di un santo laico del pallone, pronto a sparire di nuovo nel silenzio.
Un tunnel a Rivera come rimorso eterno
Eppure, tra tutte le cose straordinarie e inclassificabili, ce n’è una che lo ha sempre tormentato: quel tunnel a Gianni Rivera. Il golden boy. Il suo idolo. Quel gesto tecnico che fece impazzire il pubblico ma spezzò qualcosa in Ezio. “Fu una mancanza di rispetto”, scrisse. Solo un uomo con la sua sensibilità poteva pentirsi di un gesto così sublime. Solo un poeta con le scarpette ai piedi.
Il finale che somiglia a una ballata di De André
Ezio Vendrame se ne è andato il 4 aprile 2020, in pieno lockdown. Quando tutti eravamo chiusi in casa, lui era già chiuso nel suo mondo da tempo. Per lui, la solitudine non fu un’imposizione, ma una scelta. Se ne è andato in silenzio, come un verso d’autore letto troppo in fretta.